Dante Alighieri è stato un famoso poeta vissuto tra il 1265 e il 1321. Proprio l’anno scorso sono ricorsi i 700 anni dalla sua morte. Noi della quinta A di Rivarolo del Re ne abbiamo parlato insieme nella piazza davanti alla scuola dedicata a lui e, con nostra incredibile sorpresa, si è materializzato in giardino una mattina. È lì che ci è venuta un’idea, un’idea che sarebbe stata interessante per la nostra scuola: avremmo intervistato Dante. Gli abbiamo posto domande che riguardassero non solo la sua vita personale, ma soprattutto il perché abbia deciso di diventare un poeta e cosa lo abbia spinto a scrivere il suo grande capolavoro: la “Divina Commedia”. Un’impresa impossibile?
Noi la conosciamo come Dante Alighieri, ma sappiamo che non è il suo vero nome. Come si chiama?
«Il mio vero nome è Durante di Alighiero degli Alighieri. Questo perché mio padre si chiamava Alighiero di Bellincione e mia madre, Gabriella (chiamata Bella) degli Abati, aveva sognato, prima che nascessi, che sarei diventato una persona importante. A me però quel nome non è mai piaciuto, così fin da piccolo mi sono fatto chiamare Dante».
Ci racconti qualcosa di più delle sue origini.
«Sono nato attorno al 1265 in via Santa Margherita a Firenze. Ai miei tempi non si registravano le nascite, ma ho lasciato alcuni indizi nelle mie opere. Pensate che nel 1300 avevo 35 anni quando intrapresi il mio viaggio più importante, mentre ero “nel mezzo del cammin di nostra vita”. Inoltre, il mio segno zodiacale è quello dei gemelli, sapete? L’ho scritto io stesso, sempre nella “Commedia”».
Ha sempre voluto diventare un poeta? Che cosa vi piace del vostro lavoro?
«Volevo diventare uno scrittore perché desideravo raccontare molte storie e diventare importante. Del mio lavoro mi piace potermi esprimere come voglio, senza uno scopo che altri mi dicano che debba raggiungere: lo creo io. Ho studiato anche a Bologna per diventare un poeta. Tuttavia non ho sempre fatto questo mestiere, sapete?»
Che altro ha fatto?
«Sono diventato un Guelfo Bianco, sono stato per anni ambasciatore per la mia Firenze, finché non mi sono fatto nemico il Papa Bonifacio VIII e sono finito in esilio».
Come è stato lasciare Firenze per andare a Roma?
«Per me è stato molto difficile, perché dovevo lasciare la mia città del cuore. Però ero anche onorato, in quanto potevo incontrare il Papa e cercare di ottenere la pace tra lui e i miei concittadini. Proprio mentre ero a Roma, però, Firenze è caduta nelle mani dei Guelfi Neri e io sono stato costretto all’esilio. Lì ho avuto a disposizione molti anni per scrivere il mio capolavoro».
A che età ha iniziato a scrivere?
«Non ricordo perfettamente, ma ero molto piccolo. Allora adoravo leggere. I libri che preferivo erano le opere degli antichi autori e quelle religiose. Poi, grazie al mio insegnante preferito Brunetto Latini, ho imparato a scrivere il latino, che era la lingua degli studiosi, ma la mia preferita era il volgare, la lingua del popolo e la lingua del mio libro, la “Commedia”».
Il suo libro è un viaggio emozionante, che ci ispira ogni giorno e ci invita ad esplorare noi stessi. Ce ne può parlare?
«Il libro si chiama “Commedia”, ed è diviso in tre cantiche: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Attraverso l’Inferno e il Purgatorio mi accompagna Virgilio, mio punto di riferimento come autore antico, invece in Paradiso ho al mio fianco San Bonaventura e Beatrice».
Chi è Beatrice?
«A nove anni, in chiesa, vidi un angelo che poi scoprii chiamarsi Bice. L’ho rivista solo quando avevo diciotto anni: ho provato a conquistarla parlando con la sua amica, ma l’ho persa per sempre».
Perché?
«Ho utilizzato il metodo che, ai miei tempi, usavamo tutti: avvicinare la persona amata parlando con una sua amica. Ma con lei non ha funzionato. In ogni caso, anche se ci fossi riuscito, non avrei potuto sposarla perché il mio e il suo matrimonio erano già organizzati».
Come mai Beatrice è presente nel Paradiso?
«Virgilio non avrebbe potuto venire con me. Lui non ha mai conosciuto Dio: è stato al mio fianco fino alla fine del Purgatorio, ma poi è sparito in un modo molto triste. Mi dispiace non averlo mai più incontrato. Beatrice per me è sempre stata un angelo e non poteva che essere lei ad accompagnarmi».
Durante il viaggio all’Inferno, avete incontrato molti personaggi, alcuni pericolosi: tra questi anche Lucifero. Ha mai pensato di chiedergli le ragioni della sua cattiveria?
«No, mai. Quando io e Virgilio l’abbiamo incontrato aveva la luna storta e stava mangiando alcuni dannati. Non volevamo farlo arrabbiare ancora di più».
Come è strutturata questa sua “Commedia”?
«Inferno, Purgatorio e Paradiso hanno trentatré capitoli, con l’aggiunta di uno all’inizio per introdurre l’intera opera. I versi sono divisi in terzine con rima incatenata».
Sembra che le piaccia proprio questo numero tre.
«Sì, è il mio numero preferito. Come il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo. Come Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ho anche avuto tre figli».
Ha anche un colore preferito?
«Non esattamente, ma indossavo sempre una tunica rossa. Questa era il simbolo della corporazione dei medici e degli speziali: mi sono iscritto a questa categoria per poter intraprendere la carriera politica. Quando vedete una mia immagine, sono sempre raffigurato con quella tunica. Anche con una corona d’alloro, nonostante in vita non l’abbia mai ricevuta».
Le hanno mai fatto la proposta di consegnargliela?
«Sì, i bolognesi avrebbero voluto darmi la corona di alloro, simbolo dei poeti laureati, ma io ho rifiutato. Avrei voluto riceverla dalla mia città, Firenze».
Anche i nostri laureati ricevono la corona d’alloro. Molti di loro hanno proprio studiato la vostra “Commedia”, anche se la conoscono come “Divina Commedia”.
«Ho sentito che un mio collega, Giovanni Boccaccio, alcuni anni dopo la mia morte l’ha rinominata “Divina”: mi piace molto questo nuovo titolo. Mi fa piacere che la tradizione della corona d’alloro continui ancora e che molti studenti, come voi, leggano ancora le mie opere. Non mi sarei mai aspettato che le studiassero».
Certo che le studiamo: sono le fondamenta della nostra lingua. Ora però si chiama italiano e tutti la parlano nell’intero Paese: è in continua evoluzione.
«Quindi l’Italia ora è un unico Paese? Sono molto felice di questo: le cose, andando avanti, cambiano. La lingua che parlate adesso era la lingua che parlava il mio popolo e mi fa piacere che ora la utilizzino anche i potenti. Spero solo che la capitale di questa nuova Italia sia Firenze».
In realtà la capitale d’Italia ha fatto il suo stesso percorso: da Firenze si è trasferita a Roma. Ma questa è un’altra storia.
Articolo a cura degli alunni della classe 5^A della scuola primaria di Rivarolo del Re ed Uniti